LA FOCE DELL’IMERA E IL SUO MUSEO

 

Nei pressi della foce del fiume Imera, dove in antico sorgeva la città distrutta da Cartagine nel 409 a.C., il luogo ha da tempo dismesso i panni di sito della memoria delle due memorabili battaglie che videro la città greca prima trionfare nel 480 a.C. e 70 anni dopo definitivamente soccombere. Il tempo ha semplicemente fatto di questo luogo un’area del lavoro manifatturiero, legato all’attività agricola.

 

Dalla fine dell’Ottocento agli inizi del Novecento questo paesaggio costiero che vide importanti viaggiatori notare la presenza di un castello (in verità solo un borgo con una torre), ha ulteriormente cambiato volto, grazie anche all’archeologia che da tempo sottrae terra, pietre e frammenti fittili alla stratificazione millenaria di troppe alluvioni e di palinsesti architettonici anch’essi pluristratificati, al fine di spiegare ai moderni come complessa sia stata la storia del luogo e delle civiltà susseguitesi nel medesimo posto.

 

Quest’area, divenuta poi un sito martoriato dal passaggio della ferrovia e dall’autostrada, è a questo punto di fatto separata dal mare e dalla vista del Tirreno. In questo spazio ormai senza tempo si stagliavano recentemente solo le mute rovine del basamento di un tempio, pomposamente definito “della Vittoria”, glissando altrettanto sommessamente sulla precoce sconfitta che è subentrata appena due generazioni dopo la sua creazione. Mute rovine però, perché niente consentiva di capire la loro storia e il loro valore, dal momento che le parti aeree superstiti sono state trafugate in antico, mentre una parte consistente restava celata sotto il borgo rurale dalla torre massiccia, fondata sull’opistodomo del tempio classico.

 

Negli anni venti del XX secolo Pirro Marconi, archeologo insigne, grande filosofo e valente storico dell’Arte, lavorò oltre due anni per dismettere il borgo, dedicando un intero anno allo smontaggio pietra su pietra della torre cinquecentesca. L’arte e in particolare l’architettura dei “tempi oscuri” (medievali, barocchi e tardo barocchi), era considerata – specie dagli archeologi – un inutile fardello da cui liberarsi per lasciare emergere l’unica Arte meritevole di attenzione, la Greca: era quindi un imperativo smontare per riportare alla luce, espressione di una cultura ampiamente diffusa e condivisa.

 

Questo sentimento, al quale solo pochi illuminati archeologi riescono ancora oggi a sfuggire, portò a quell’episodio di tesaurizzazione successivo allo scavo della prima metà del Novecento: le straordinarie sculture delle gronde policrome, esempio illustre di un coronamento crollato alla base del tempio, con le fauci leonine minacciosamente aperte verso l’alto, furono trasferite a Palermo nel grande Museo Archeologico Nazionale, oggi “Antonino Salinas”.

 

Sul posto solo rovine, sovente coperte dall’erba, ed edifici rurali sette-ottocenteschi che non nascondevano alcun importante resto al loro interno: una modesta casa contadina, i ruderi di un mulino in totale abbandono e un magazzino senza tetto, senza infissi e pavimento, tutt’uno con una bella casa solerata contadina. In questo contesto il progetto d’amenagement appena concluso prevedeva di esporre i principali corredi tombali delle Necropoli Occidentale ed Orientale di Himera.

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